Un cane è un componente a pieno titolo della famiglia!

Il diffondersi sempre più frequentemente di animali domestici nelle nostre famiglie determina una maggior attenzione, anche da parte del mondo del diritto, rispetto ad una serie di problematiche. Una tra queste è certamente quella riguardante eventuali vizi dell’animale acquistato.

Tali argomenti assumono tanto più rilievo in quanto una nuova sensibilità, sempre più marcata, coinvolge le persone in relazione agli animali domestici, che sovente entrano a far parte a pieno titolo delle famiglie, come veri e propri membri di esse. Ed inoltre, non trascurabile, spesse volte il prezzo di acquisto di tali animali è ragguardevole, e tale da giustificare il ricorso alle vie giudiziarie in caso di “vizi” o “difetti”… della cosa venduta.
Della questione si è occupata la Corte di Cassazione (Sezione II, sentenza n. 22728 del 25.09.2018) decidendo una controversia relativa all’acquisto di un cane di razza pinscher, che, seguito di un esame approfondito, risultò essere affetta da una grave cardiopatia. Nella vicenda, il proprietario, dopo aver scoperto la patologia, ciò che giuridicamente rappresenta appunto un “vizio”, lo denunciò dopo 10 giorni dalla sua scoperta, con una raccomandata ricevuta dal venditore cinque giorni dopo.
Sia il giudice di pace in primo grado, che il tribunale in grado di appello, giudicarono la denuncia dei vizi tardiva, in quanto effettuata oltre il termine previsto dall’articolo 1495 del codice civile, ovvero di otto giorni dalla scoperta.

Un “pet”, giuridicamente è un… bene di consumo

Contro tali pronunce ha proposto ricorso per cassazione l’acquirente del malcapitato pinscher, sostenendo che l’animale d’affezione andrebbe ricompreso nell’ampia nozione di “beni di consumo” di cui all’articolo 128 del decreto legislativo 206 del 2005, e l’acquirente di tale animale dovrebbe qualificarsi come “consumatore” non essendo l’acquisto collegato all’esercizio di un’attività imprenditoriale professionale.
Per effetto dell’applicazione della norma invocata, i vizi andrebbero denunciati entro il termine di due mesi dalla loro scoperta.
Venendo subito a dire che la Cassazione ha accolto il ricorso, nei termini suggeriti dal ricorrente, pare non privo d’interesse osservare il ragionamento logico giuridico seguito dalla suprema corte.
Permette la sentenza della cassazione un interessante esame della nozione di “bene di consumo”, e, prima ancora, della nozione di “bene”, quale oggetto della negoziazione giuridica.
In termini generali, con il termine “bene” nel mondo del diritto si intende “l’oggetto della tutela giuridica”. Nel campo del diritto privato, per “bene” si intende “l’oggetto di un diritto soggettivo” ed in tal caso il bene, quale “oggetto” del diritto, costituisce il correlato logico giuridico del “soggetto” del diritto medesimo. Il pet: un nostro amico ma giuridicamente un “bene di consumo”. Prosegue inoltre la sentenza citata nel ricordare come il codice civile, all’articolo 310, fornisca la nozione di beni, definendoli come “le cose che possono formare oggetto di diritti”. Dal punto di vista ontologico, i concetti di “bene” e di “cosa” sono diversi e non sovrapponibili in quanto la cosa, è di per sé un’entità naturale, pregiuridica, che diventa “bene giuridico” quando è suscettibile di utilizzazione da parte dell’uomo e di assumere un valore economico.

il pet, è un bene di natura economica.
Il nostro micio: un bene materiale suscettibile di valutazione economica?

Nell’ambito del diritto vanno considerati come “cose” anche gli esseri viventi suscettibili di utilizzo da parte dell’uomo anche se, non tutti gli animali assumono per l’uomo lo stesso significato ed hanno lo stesso rilievo.
Basti pensare agli animali selvatici, che ricevono protezione attraverso la legislazione che regolamenta la caccia” gli animali addomesticati dall’uomo e distinti in animali “da reddito” o animali “da compagnia”, anche detti “d’affezione”, tenuti o destinati ad essere tenuti dall’uomo per compagnia o affezione senza fini produttivi od alimentari (art. 1 dP.C.m. 28.03.2003).
Il crescente ruolo che hanno sempre più assunto gli animali da compagnia nella nostra società ha imposto un rafforzamento della loro tutela giuridica, principalmente attuato attraverso la legge 14 agosto 1991, n. 201 (la cosiddetta “legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”) e con la convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia del 13 novembre 1987, ratificata in Italia con la legge 4 novembre 2010,n. 201.
Va precisato che tale disciplina non rende ovviamente gli animali titolari di diritti: per quanto sia un essere senziente, e comunque privo della “capacità giuridica” ovvero la capacità di essere soggetti di diritti ed obblighi, capacità che il nostro ordinamento riserva alle persone fisiche ed a quelle giuridiche.
L’animale, è pertanto solo il beneficiario della tutela apprestata dal diritto e non il titolare di un diritto alla tutela giuridica.

La Corte di Cassazione, in Roma

Prosegue inoltre la suprema corte, nel ricordare come il diritto civile consideri gli animali come delle “cose mobili” tali pertanto da poter costituire “oggetto” di diritti reali o di rapporti negoziali: gli animali, possono infatti costituire oggetto di compravendita e lo stesso codice civile disciplina specificamente la compravendita di animali nell’apposita fattispecie di cui all’articolo 1496.
Occorre tuttavia, seguendo il ragionamento della cassazione, accertarsi se l’animale d’affezione, oltre a costituire bene giuridico oggetto di un contratto di compravendita, possa essere qualificato anche come “bene di consumo” ai sensi dell’articolo 128 del decreto legislativo 206 del 2005.
Infatti, il tribunale, in sede di gravame ha sostenuto che la normativa prevista dal codice di consumo non potesse essere applicata alla compravendita di animali, trattandosi di rapporti disciplinati specificamente dall’articolo 1496 del codice civile il quale stabilisce che: “nella vendita di animali la garanzia per i vizi è regolata dalle leggi speciali o, in mancanza, dagli usi locali. Se neppure questi dispongono, si osservano le norme che precedono”. Secondo il tribunale, dunque, in assenza di leggi speciali di usi locali bisognerebbe necessariamente applicare la disciplina prevista dal codice in materia di vizi della cosa venduta ed in particolare il termine di decadenza (di otto giorni dalla scoperta del vizio) prevista dall’articolo 1495 del codice civile.

Non sempre è sufficiente una “stretta di mano”.

La Corte di Cassazione si discosta dalla ricostruzione fatta dal giudice di merito, ritenendo indubbio che l’interpretazione dell’articolo 1496 del codice civile non possa restare cristallizzata al tempo della adozione del codice civile dovendo invece tener conto dell’evoluzione del sistema normativo nel suo complesso e in particolare della sopravvenuta disciplina posta a tutela del consumatore e del suo riflesso sulle norme codicistica che regolano la compravendita; il significato di una norma infatti non si riduce a ciò che discende dagli enunciati linguistici che compongono la disposizione legislativa, ma dipende anche dal significato delle altre norme del sistema con le quali essa entra in relazione; dipende anche dal significato delle norme sopravvenute con le quali la norma da interpretare interagisce. Perciò, l’attività interpretativa è “sistematica” e proprio per questo anche “adeguatrice” nel senso che è aperta al mutamento, consentendo in tal modo l’evoluzione dell’ordinamento giuridico.
Bisogna inoltre considerarsi, stando alla cassazione, che l’articolo 135 comma 2 del codice del consumo stabilisce che in tema di contratto di vendita, le disposizioni del codice civile si applicano “per quanto non previsto dal presente titolo” e che l’articolo 1469 bis del codice civile, introdotto dall’articolo 142 del codice del consumo, stabilisce che le disposizioni del codice civile contenute nel titolo “dei contratti in generale” si applicano ai contratti del consumatore ove non derogato dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore.
Esiste dunque, nell’attuale assetto normativo della disciplina della compravendita, una chiara preferenza del legislatore per la normativa del codice del consumo relativo alla vendita ed un conseguente ruolo “sussidiarie” assegnato alla disciplina codicistica, nel senso che in tema di vendita di beni di consumo, si applica anzitutto la disciplina del codice del consumo, potendosi applicare quella del codice civile in via residuale, solo per quanto non previsto dal codice del consumo.
È tuttavia necessario che sussistano i presupposti per l’applicazione del codice del consumo: laddove per “beni di consumo” si intende qualsiasi “bene mobile” e per “venditore” si intende “qualsiasi persona fisica o giuridica pubblico privata che, nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, utilizza i contratti di cui al comma 1”, ovvero contratti di vendita, permuta, somministrazione, appalto…
D’altro canto, per “consumatore” si intende “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”, ovvero a persone fisiche che concludano contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata, dovendosi invece considerare professionista il soggetto che stipuli il contratto nell’esercizio di una siffatta attività o per uno scopo a questa connesso.
Alla stregua delle nozioni appena ricordate, la persona fisica che acquista un animale da compagnia, per la soddisfazione di esigenze di vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale professionale deve necessariamente essere qualificato come consumatore, mentre deve essere qualificato venditore ai sensi del codice del consumo, di vendere un animale da compagnia nell’esercizio del commercio o di altra attività imprenditoriale. Tale animale, peraltro è da quantificarsi come un “bene di consumo”.
Sulla base di questi ragionamenti la Corte di Cassazione ha concluso affermando che la compravendita di animali da compagnia rientra nella disciplina del codice del consumo, contenente una maggior tutela per il consumatore rispetto alla disciplina codicistica. Nel caso di specie, tale maggior tutela si esplica in un termine più lungo per la denuncia dei vizi, ovvero due mesi dalla loro scoperta, in luogo degli otto giorni previsti dall’articolo 1495 del codice civile.
La sentenza si conclude quindi con l’enunciazione del seguente principio di diritto: “La compravendita di animali da compagnia od affezione, ove l’acquisto sia avvenuto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata dal compratore, è regolata dalle norme del codice del consumo, salva l’applicazione delle norme del codice civile per quanto non previsto”;
“Nella compravendita di animali da compagnia od affezione ove l’acquirente sia un consumatore, la denuncia del difetto della cosa venduta è soggetta ai sensi dell’articolo 132 del codice del consumo, al termine di decadenza di due mesi dalla data della scoperta del difetto”.

Avv. Patrizia Fadda – Corso Vittorio Emanuele, 105 Ittiri. Via Bellieni, 36 Sassari.

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